On Medicine

Anno XIV, Numero 4 - dicembre 2020

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INTERVISTA

Intervista a Beatrice Zuffi

Redazione On Medicine

La “Carta dei Diritti del bambino nello sport” (O.N.U. 1992) sancisce 10 punti fondamentali a garanzia e sostegno dell’attività fisica: 1) diritto di fare dello sport; 2) diritto di divertirsi e di giocare; 3) diritto di beneficiare di un ambiente sano; 4) diritto di essere trattato con dignità; 5) diritto di essere accompagnato e allenato da persone competenti; 6) diritto di misurarsi con giovani di pari forza; 7) diritto di partecipare a competizioni adatte;8) diritto di praticare il proprio sport nel pieno rispetto delle norme di sicurezza; 9) diritto di disporre del sufficiente tempo di riposo; 10) diritto di non essere un campione. Beatrice Zuffi, giovane psicologa milanese, è la promotrice di un progetto che fa di questo decalogo la propria bandiera.


Dottoressa Zuffi, cosa l’ha spinta a sviluppare il suo progetto?


La storia del “Progetto doppia A – Atletica e Autismo” inizia con una coincidenza. Nel mese di settembre del 2018 Stefania Morandi, presidente nonché fondatrice dell’associazione sportiva dilettantistica “Atletica Meneghina”, mi chiese se, in qualità di atleta e di laureanda in psicologia, me la sentivo di provare ad affiancare durante l’allenamento un bambino di terza elementare che manifestava comportamenti aggressivi verso i compagni e tendeva ad allontanarsi senza permesso. La mamma di Mattia (nome di fantasia) mi aveva accennato alle difficoltà del figlio, sul quale pesava una diagnosi che lo collocava all’interno dello spettro dell’autismo. Ho accettato di fare questa prova al fianco di Mattia e da quel giorno non abbiamo mai smesso di allenarci insieme. Abbiamo infatti deciso di proporre al bambino una figura di riferimento fissa che lo aiutasse a concentrarsi per eseguire gli esercizi indicati dall’istruttore, che mediasse nel rapporto con i compagni e che fosse pronta a intervenire negli eventuali momenti di crisi.


Che influenza ha avuto la sua presenza nell’attività sportiva del bambino e del gruppo?


Dal momento che ho imparato a considerare qualsiasi etichetta diagnostica fuorviante e castrante (in particolar modo per i bambini) ho cercato di non soffermarmi sulle supposte difficoltà “croniche” di Mattia e di concentrarmi invece su tutto ciò che succedeva in pista, dandogli la possibilità di sorprendermi e di sorprendersi. È stato un anno bello e intenso, Mattia come tutti i bambini è cresciuto e cambiato molto, ha imparato che è possibile e, talvolta, necessario comportarsi diversamente. La mia presenza è stata inizialmente un elemento perturbante, ma molto rapidamente i bambini si sono abituati alla mia presenza e mi hanno assegnato un posto all’interno del gruppo. Ho conosciuto i bambini giocando e faticando insieme a loro mentre provavo a facilitare le loro interazioni, con il tempo ho cercato sempre più di farmi da parte e di intervenire attivamente solo in alcune situazioni. Non posso dire che il percorso con Mattia sia lineare, che non abbia alti e bassi, ma il rapporto che si è formato tra noi ci permette di ripensare insieme a ciò che accade e di continuare a imparare dall’esperienza.


Come si è arrivati a trasformare questa esperienza in un progetto articolato?


L’anno di allenamenti con Mattia ha cambiato e ha fatto molto riflettere anche me; infatti, per la stagione sportiva successiva (2019/2020) quello che era nato come un esperimento si è trasformato in una iniziativa strutturata. Il progetto, che abbiamo presentato al Comune di Milano, è stato chiamato “Doppia A – Atletica e Autismo” perché la maggior parte delle richieste che “Atletica Meneghina” ha ricevuto sono state parte di genitori di figli con questa diagnosi, ma il progetto non si pone limiti rispetto alla possibilità di accogliere qualunque bambino delle elementari (anche se l’intenzione è di estendere la possibilità anche ad altre fasce d’età), almeno per fare una prova di un allenamento e capire insieme se è il contesto è adatto a lui. Garantire la possibilità di accesso agli allenamenti è una forma di responsabilità sociale; nello specifico, il progetto “Doppia A – Atletica e Autismo” propone un istruttore di sostegno a chi ne ha bisogno durante l’attività di atletica per migliorare la sua qualità della vita, proponendo uno spazio, al di fuori dell’ambito familiare e terapeutico, che possa contribuire a sviluppare le capacità motorie, di socializzazione e di espressione personale.


Gli “istruttori di sostegno” si distinguono dagli altri?


L’istruttore di sostegno non ha nessun segno esteriore particolare che lo distingua dall’istruttore “vero e proprio”: un tratto peculiare del progetto, infatti, è quello di non far sentire diversi i bambini seguiti, focalizzandosi sull’obiettivo in comune con i compagni di fare attività sportiva e divertirsi insieme. Il fatto che gli istruttori di sostegno siano laureati in psicologia dovrebbe essere una garanzia di formazione e sensibilità, ma è qualcosa che, una volta comunicato inizialmente alle famiglie, non viene appositamente messo in evidenza. Per lo stesso motivo abbiamo deciso di adottare l’espressione “istruttore di sostegno” anche se le persone che ricoprono questo ruolo, pur essendo appassionate di sport, non sono in possesso del brevetto di istruttore.


Come gestite il progetto ora che l’epidemia di Covid-19 sta limitando lo svolgimento delle attività sportive?


L’attività all’aperto è stata una delle ultime ad essere colpita dalle restrizioni legate alle misure anti Covid, ma anch’essa è stata toccata. La prima chiusura totale ci ha presi alla sprovvista e con la sospensione di tutte le attività anche il progetto è stato fermo circa due mesi e mezzo. “Atletica Meneghina” ha proposto corsi via Zoom, mentre io con la collaborazione dei genitori sono riuscita a rimanere in contatto con i bambini che seguivo tramite videochiamate, scambi di messaggi vocali o di brevi video. Quest’autunno è stato diverso: l’ultimo DPCM tutela il diritto delle persone con disabilità o con disturbi dello spettro autistico di proseguire le attività (anche quelle sportive). Perciò abbiamo subito contattato il Comune di Milano che ci ha concesso l’accesso speciale all’Arena per due ore alla settimana. Anche se il progetto prevede che i bambini siano seguiti singolarmente, abbiamo deciso di formare provvisoriamente un piccolo gruppo costituito dai sei bambini iscritti e da un istruttore di sostegno perché, avendo solo loro il diritto di accesso alla struttura, altrimenti si sarebbe persa la componente fondamentale del progetto: l’interazione giocosa con il gruppo. Infatti, le difficoltà relazionali che accomunano questi bambini sono una risposta disfunzionale al loro desiderio di socialità.