On Medicine

Anno XIV, Numero 2 - giugno 2020

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INTERVISTA

Intervista a Elisabetta Covelli

Redazione On Medicine

La paura del dolore e del movimento, che possiamo soffrire o che abbiamo provato in passato, è un’emozione frequente in chi ha subìto un trauma fisico importante e condiziona in modo rilevante il percorso riabilitativo. Imparare a gestire questa e le altre emozioni di base, può consentire al paziente di essere più collaborativo con chi lo assiste nel recupero della condizione persa e, così, di accelerare la ripresa delle normali attività. Ce ne parla la dottoressa Elisabetta Covelli, Analista Transazionale, collaboratrice in alcuni Centri Medici di Milano.


Dottoressa Covelli, cos’è l’analisi transazionale e come è nato il suo interesse per la paura del dolore nel percorso riabilitativo?


Sono laureata in Filosofia e in Scienze Psicologiche; inoltre, ho conseguito la Certificazione Europea ed Internazionale in Analisi Transazionale, una delle scuole di pensiero della psicoanalisi, fondata dal medico psichiatra Eric Berne dagli anni ‘50 in USA. Essa si concentra sugli aspetti comunicativi ed emotivi delle “transazioni”, cioè “relazioni” fra due o più persone.
Da diverso tempo, mi occupo di Counselling e Coaching, sia professionale sia sportivo, collaborando con Medici e Fisioterapisti che seguono pazienti in riabilitazione post traumatica.
Ho sempre praticato sport e, a causa di un trauma fisico, sono entrata in contatto con il mondo della riabilitazione fisica.


Nel corso del suo iter riabilitativo è stata influenzata dalla paura del dolore?


Sicuramente sì. Come paziente ho compreso quanto le emozioni possano influenzare la riabilitazione, così ho iniziato a dedicarmi a questo argomento che è oggetto di studio da parecchio tempo e in diverse sedi. Esiste, infatti, un test, la Tampa Scale of Kinesiophobia, elaborato specificamente per valutare la fobia del movimento in soggetti che hanno subìto un trauma che impedisce di praticare, per un certo periodo, sia lo sport agonistico e amatoriale sia un’attività fisica quotidiana.


Questa fobia, a parer suo, si ricollega al timore di percepire di nuovo dolore o di subire un nuovo infortunio?


Secondo me, a entrambe le situazioni; ovviamente, il “farsi male” crea dolore e periodi d’inattività, quindi c’è, spesso, il timore di entrambi gli aspetti. È importante notare che solo quando la paura è eccessiva, cioè inefficace per il normale svolgimento della riabilitazione e della vita quotidiana, diventa patologica e, in alcuni casi, una vera fobia.

Qui, mi riallaccio alla teoria di riferimento, l’Analisi Transazionale, e in particolare alla Teoria delle Emozioni. Essa è da tempo convalidata anche dagli antropologi e da molti studi: le emozioni di base degli esseri umani, come dei primati, non sono molte. Oltre alla paura, ci sono la rabbia, il dolore, fisico ed emotivo, la gioia e la speranza. Le emozioni sono tutte positive e utili per la sopravvivenza, sia degli individui sia della specie. Diventano patologiche quando sono eccessive rispetto alla realtà (ad esempio, si prova una paura/ansia troppo forte rispetto al reale pericolo). In questi casi, la percezione della realtà risulta alterata, spesso in modo inconsapevole.


Come si è svolta la sua ricerca?


Ho collaborato con una équipe di Medici e Fisioterapisti nell’ambito di un progetto di ricerca volto a definire dei questionari che, sottoposti a soggetti volontari, fossero in grado di individuare i fattori di rischio che possono indurre alcuni comportamenti inefficaci per il raggiungimento degli obiettivi della riabilitazione, come l’abbandono precoce del percorso riabilitativo e la tendenza a farsi male di nuovo, la cosiddetta “re-injury”. Dalla ricerca effettuata, si evince che i possibili fattori di rischio sono:

  • scarsa capacità di riconoscere ed utilizzare efficacemente le proprie emozioni;
  • scarso “contatto” con il proprio corpo, usato solo come “strumento”;
  • difficoltà nella comunicazione e relazione con gli operatori;
  • forte presenza di pregiudizi sociali e familiari che ostacolano le scelte individuali.


Ogni persona percepisce il dolore in modo diverso perché ciascuno ha la propria soglia di dolore; quanto influisce questo fattore sulla resa di una riabilitazione?


Molto. Su questo tema ci sono molti studi in itinere. Spesso, la paura del dolore e/o del movimento nasce dallo scarso riconoscimento delle emozioni reali. Per questo, la percezione del dolore può risultare alterata rispetto alla norma. Infatti, ci sono emozioni dette “sostitutive” o “parassite”; cioè, oltre alla paura possono essere coinvolte altre emozioni che il paziente, talvolta, non coglie consapevolmente, come la rabbia e la tristezza. Queste emozioni, se riconosciute, diventano delle risorse di energia positiva; per esempio, la rabbia può diventare “determinazione” per il raggiungimento degli obiettivi della riabilitazione stessa.


Esiste una terapia che aiuti a sconfiggere queste emozioni negative e aiuti il paziente a dare il meglio di sé nel percorso riabilitativo?


Uno dei percorsi proposti, è chiamato “coaching emotivo”. Esso prevede un ciclo di incontri, preceduti dalla compilazione dei questionari prima citati, che consente di porre una prima ipotesi sul problema del paziente. Di solito, si tratta di un totale di 10-12 incontri durante i quali il paziente viene stimolato a riconoscere l’emozione principale che influenza il suo comportamento in fase riabilitativa. Questo può motivare meglio il paziente a proseguire la riabilitazione e a raggiungere gli obiettivi prefissati.


Quindi è un percorso di sostegno psicologico che si affianca a quello riabilitativo vero e proprio?


Sì, ma è opportuno precisare che non si tratta di un percorso di psicoterapia. È esclusivamente un percorso di supporto emotivo al paziente che si trova già inserito in centri di riabilitazione medica e fisica. Il coaching emotivo e sportivo è diffuso nel Nord Europa e in Nord America da moltissimi anni; in Italia è ancora poco conosciuto. La nostra ricerca nasce dal fatto che è stato evidenziato che alcuni pazienti, soprattutto sportivi agonisti o amatoriali di buon livello, spesso si lamentavano perché non si sentivano supportati emotivamente, durante il percorso di riabilitazione, in modo adeguato alle loro necessità.


Secondo lei, il coaching emotivo può risultare utile anche in pazienti affetti da patologie neurodegenerative quali sclerosi multipla o distrofia muscolare, che presentano una forma progressivamente invalidante per la quale è necessaria una costante gestione fisioterapica?


Sì. Ritengo che la Teoria delle Emozioni possa essere applicata a qualunque persona con diverse sindromi patologiche. Credo sia consigliabile che gli operatori incaricati abbiano una conoscenza approfondita della situazione, così da poter definire il percorso più idoneo possibile per il paziente. Inoltre, è fondamentale che fra il paziente e tutti gli operatori sanitari da cui è seguito ci sia una comunicazione trasparente e rispettosa, formulando sin dall’inizio un Contratto o Patto Formativo riguardo a ruoli, competenze e obiettivi di ogni soggetto coinvolto nel percorso riabilitativo. In questo modo, si può creare una vera alleanza emotiva fra operatori e paziente, aumentando le probabilità di raggiungere e, anche, superare gli obiettivi riabilitativi prefissati.